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La sindrome del carcerato

In questi giorni leggiamo su numerosi articoli (più o meno scientifici) come la nostra attuale condizione di quarantena sia paragonata alla cd. “Sindrome del Carcerato“.

Ma di cosa si tratta? A cosa fa riferimento? Il termine usato racchiude varie forme di disagio, che possono insorgere in tempi diversi della carcerazione e con modalità diverse a seconda delle caratteristiche socio-culturali e personologiche dei soggetti.

In questo articolo presento una sintetica disamina delle varie Sindromi Penitenziarie. Buona lettura!

 

“Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo” (Ceraudo, 1997)

Con l’ingresso in carcere il soggetto perde il ruolo sociale che prima aveva, viene privato dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente; perde il contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici ed inizia a pensare a cosa accade loro mentre lui è lì.

La capacità di stare in carcere non è semplice. Goffman (1961) ha individuato quattro forme di adattamento, tra cui in genere la maggior parte dei detenuti oscilla in una progressione consequenziale.

  1. Adattamento intransigente: il detenuto entra volontariamente in urto con l’istituzione rifiutando qualsiasi forma di collaborazione. Si considera in guerra con essa, partecipa e promuove scioperi, sommosse ed evasioni. Secondo Goffman, si assisterebbe a questo tipo di comportamento in particolar modo durante la fase iniziale e sarebbe una reazione temporanea al primo periodo di reclusione.
  2. Adattamento regressivo: il detenuto concentra la propria attenzione solo su se stesso. Si ritira in un mondo personale, indirizzando le proprie facoltà esclusivamente nel soddisfacimento dei bisogni fisici. Si disinteressa della propria situazione giuridica, ignora i legami col mondo esterno, è profondamente indifferente a quanto avviene intorno a lui. Tende a rifiutare tutte le forme di socialità rinchiudendosi in se stesso e isolandosi quasi completamente dalla vita di relazione dell’Istituto. Il ritiro dalla situazione è di solito causato dalla constatazione della propria impotenza a lottare contro il Sistema.
  3. Adattamento ideologico: il detenuto accetta o finge di accettare senza riserve la condanna inflittagli, comportandosi da “detenuto modello”. Oltre alla condanna accetta o finge di accettare la disciplina carceraria adeguandovisi. E’ in prima linea durante le cerimonie carcerarie, collabora con l’equipe, nei riguardi dei compagni assume l’aspetto dell’uomo rassegnato e tende ad essere di esempio morale.
  4. Adattamento entusiastico: il detenuto accetta completamente la realtà carceraria come unica possibile, costruisce la propria esistenza sulla base della prassi istituzionale, ignorando quasi completamente la vita esterna percepita come pericolosa e quindi temuta.

Sindromi detentive

Il contesto carcerario spesso è una variabile favorevole a rendere il disagio psichico la “miglior soluzione” ad una condizione di vita particolarmente difficile. Numerosi studi hanno rilevato forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal legame esistente tra la loro insorgenza e lo stato di detenzione: esistono cioè vere e proprie forme di disagio con sintomi caratteristici che insorgono in individui in detenzione e che non si osservano in altri ambienti. Queste patologie vanno dalla comune reazione ansioso-depressiva sino alla “Sindrome di Ganser”.

Inoltre, durante la detenzione insorgono modificazioni sensoriali:

  • le dimensioni della cella trasformano lo sguardo da “lungo” a “corto” alterando la vista;
  • l’olfatto si anestetizza perchè l’odore del carcere è pesante, stagnante, uniforme;
  • l’udito si acutizza, connettendosi però con l’emozione della paura (il rumore delle sbarre, dei cancelli, delle chiavi, delle grida, dei lamenti) e paradossalmente sopraggiunge la sordità come difesa;
  • la privazione del contatto con vari tipi di materiali (es, vetro, metallo) riduce la gamma tattile.

In carcere la giornata è fortemente ritualizzata, tutto sempre uguale. Col passare del tempo possono emergere alterazioni del linguaggio, del movimento, della sessualità. Inoltre l’isolamento, che si traduce in carenza di interazione tra interno ed esterno e privazione degli stimoli, facilitano il deterioramento mentale.

Le due forme psicopatologiche più note e importanti sono le seguenti.

  • Sindrome di Prisonizzazione

Essa rappresenta ciò che Clemmer (1940) definisce un “processo di erosione dell’individualità” a vantaggio di un progressivo adattamento alla comunità carceraria. La prisonizzazione, in altri termini, si identifica nell’assunzione delle abitudini, usi e costumi dell’esperienza carceraria sull’individuo, attraverso un processo di assimilazione da parte del detenuto delle norme e dei valori che governano ogni aspetto della vita interna al penitenziario. Il soggetto abbandona il suo modo di essere, le sue cose, il suo stile di pensiero e comportamentale: abbandona, cioè, il modo di rappresentarsi a se stesso e agli altri e dovrà ridefinirsi, non solo rispetto a se stesso ma anche verso i nuovi compagni, lasciando spazio alla “discultura” (perdita dei valori che il soggetto aveva prima dell’internamento). Accanto allo sviluppo di nuovi modi di mangiare, vestirsi, parlare, lavorare, si assiste alla divulgazione ed all’assunzione di ideologie diverse, spesso di tipo malavitoso e criminale.

Affinchè l’istituzione penitenziaria riesca a funzionare (soprattutto in termini di ordine e di controllo), si tende a procedere verso un’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti; i bisogni, i desideri e le esigenze personali del soggetto sono, così, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità della struttura detentiva.

La Sindrome di Prisonizzazione può svilupparsi in modo più o meno intenso a seconda della personalità del soggetto e, soprattutto, a seconda del mantenimento delle relazioni interpersonali con le persone esterne.

  • Sindrome di Ganser

Questa patologia è la più tipica, anche se non così frequente ed esclusiva del regime detentivo.

Si tratta di una forma dissociativa caratterizzata da amnesia per il periodo nel quale si manifestano i sintomi. Si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al peggioramento quando il paziente è consapevole di essere osservato. Questi sintomi sono:

  • risposte approssimative, alla rovescia o di traverso;
  • alterazione degli stati di coscienza, stati sognanti o crepuscolari;
  • sintomi somatici o di conversione;
  • allucinazioni;
  • amnesia dell’episodio;
  • febbre tifoide o grave trauma emotivo.

Nel contesto penitenziario, quando ci si trova di fronte a tale condizione spesso si procede ad effettuare una diagnosi differenziale con la simulazione, per scongiurare una mistificazione con finalità manipolatorie volte all’ottenimento di benefici.

Attualmente tale Sindrome è inserita nel DSM-5 come “Disturbo Dissociativo con altra specificazione“.

Altre sindromi detentive

  • Sindrome da Innocenza: negazione totale o parziale della propria responsabilità rispetto al reato e/o percezione della pena come troppo grave in relazione al reato; in genere compaiono minimizzazione, razionalizzazione, proiezione.
  • Sindrome dell’Amnistia o della Grazia: convinzione, inadeguata rispetto alla situazione reale, di ottenere una riduzione del periodo di detenzione o addirittura una cancellazione della pena.
  • Sindrome del Guerriero e del Giustiziere: la speranza di uscire viene sostituita con un’affermazione narcisistica di sè attraverso il controllo violento sugli altri o identificandosi con la giustizia, diventando loro stessi giudici ed esecutori delle pene.
  • Sindrome Persecutoria: le particolari condizioni della vita penitenziaria possono essere facilitatori rispetto ad atteggiamento di sospetto e senso di persecuzione da parte di altri detenuti, agenti di custodia, o del sistema-giustizia in generale.

Autolesionismo

Le condotte autolesive nel contesto carcerario possono essere originate da:

  • cause psichiche (ovvero sintomo di un più ampio disagio mentale);
  • cause emotive (atto istintivo di protesta);
  • cause razionali (atto deliberato diretto ad ottenere in modo strumentale un beneficio giudiziario o penitenziario.

A prescindere dall’origine, il comportamento autolesionista rappresenta un gesto disperato finalizzato al sentirsi vivi: il dolore fisico diventa il mezzo di contatto con la realtà ed il corpo, in un luogo ove la mente viene costantemente misconosciuta, è l’unico mezzo preso immediatamente in considerazione. Siamo di fronte a quanto Gonin (1994) descrive come il martirio del corpo incarcerato.

Suicidio

Il suicidio di un detenuto porta con sè caratteristiche ben diverse rispetto all’atto eseguito da un uomo libero: quelli che, per la popolazione “libera” sono frequenti fattori di rischio (precedenti tentativi di suicidio, disturbi psichici, tossicodipendenza, emarginazione sociale) sono molto più rappresentati in quella carceraria.

Come ricorda Ponti (1999), inoltre, detenzione significa isolamento dalla società, lontananza dagli affetti, impatto con i valori della sottocultura violenta dominanti nell’ambiente carcerario.

Talvolta in carcere assistiamo al cosiddetto para-suicidio, che rappresenta il tentativo da parte del soggetto di sopprimersi, ma non riflette la reale volontà di portare a termine il gesto. Esso, di fatto, è un atto strumentale e manipolatorio nei confronti dell’ambiente circostante, al fine di ottenere benefici/vantaggi o di attirare l’attenzione.

Il gesto suicida di un soggetto carcerato può avere vari significati, come sottolinea Baechler (1989):

  • Fuga: il soggetto, attentando alla propria vita, cerca di fuggire da una situazione percepita come insopportabile;
  • Lutto: il soggetto attenta alla propria vita in conseguenza della perdita (reale o immaginaria) di un effettivo elemento della sua personalità o dell’ambiente circostante;
  • Castigo: il soggetto attenta alla propria vita per espiare un errore o una colpa, reale o immaginaria;
  • Delitto: il soggetto attenta alla propria vita per trascinare con sè, nella morte, un’altra persona;
  • Vendetta: il soggetto attenta alla propria vita sia per provocare il rimorso altrui, sia per infliggere all’altro l’infamia della comunità;
  • Richiesta e ricatto: il soggetto attenta alla propria vita per far pressione sull’altro, ricattandolo;
  • Sacrificio e passaggio: il soggetto attenta alla propria vita per raggiungere un valore o una condizione percepita come superiore;
  • Ordalia e gioco: il soggetto attenta alla propria vita per mettere in gioco se stesso, e organizza una sorta di “sfida” al destino, in modo tale da rimettere la scelta tra la propria vita e la morte ad un’entità metafisica.

Vertigine da uscita

Quando il soggetto è in procinto di essere scarcerato, può essere pervaso da stati di ansia e di agitazione psico-motoria, oltre ad una polarizzazione su pensieri di vario genere (difficoltà della vita del mondo esterno, possibilità di reiterare il reato, timore di non essere in grado di tornare alla quotidianità, etc).

Il detenuto che sta per lasciare l’Istituto sperimenta la paura per ciò che possiamo definire “estraniamento“, ovvero l’incapacità di adeguarsi ai mutamenti della vita sociale e di conseguenza ad un nuovo contesto dopo la scarcerazione. Quando i sentimenti di inadeguatezza (rispetto al reinserimento sociale e/o familiare e al ripristino di un ruolo che è stato sospeso per un tempo) raggiungono un grado di angoscia molto alto, i soggetti possono ricorrere a comportamenti autolesivi o a veri e propri tentativi di suicidio.

Alcuni soggetti, la maggior parte di loro anziani, senza famiglia e con scarse possibilità di reinserimento sociale/lavorativo, vivono con particolare sconforto la separazione dall’istituzione che viene percepita, paradossalmente, quale luogo sicuro. Spesso vengono agiti comportamenti tesi a rimandare la scarcerazione.

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