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Affido condiviso, tra dubbi e riflessioni

Com’è noto, la legge 8/2/2006 n.54, entrata in vigore il 16 marzo 2006, ha rimodellato la disciplina dell’affidamento dei figli in materia di separazione. Le principali novità che la legge sull’affido condiviso ha introdotto sono rappresentate dal riconoscimento di pari diritti e doveri ad entrambi i genitori nei confronti dei figli. Non per altro si è iniziato a parlare di “bigenitorialità” (principio affermatosi da tempo negli ordinamenti europei e presente altresì nella Convenzione sui diritti del Fanciulli sottoscritta a New York il 20.11.1989 e resa esecutiva in Italia con la legge n.176 del 1991). Inoltre, vengono riconosciuti diritti di contatto continuativo tra nipoti e nonni e con i parenti più stretti.

Problema: bigenitorialità?

A primo acchito, questa legge rappresenta un passo fondamentale per un cambiamento forte del Diritto di Famiglia, alla luce anche del mutare della mentalità e della società. Viene capovolto il sistema in base al quale i figli sono affidati o all’uno o all’altro dei genitori, secondo il prudente apprezzamento del presidente del tribunale o del giudice o secondo le intese raggiunte dai coniugi. Tuttavia, l’entusiamo che ha ruotato intorno a questa grande novità non è stato sufficiente a rendere, nel concreto, rapida ed efficace la risposta di giustizia in favore dei figli minori di genitori separati o separandi.I motivi sono vari. L’innovativo (e sacrosanto, se mi è concesso dirlo) principio della “bigenitorialità” non ha ancora trovato applicazione nei termini di una maggiore tutela degli interessi del minore a mantenere un rapporto “equilibrato” e “continuativo” con ogni genitore anche dopo la separazione:

[blockquote]
[…]  il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.[/blockquote]
Anzi, è plausibile il dubbio che, nella pratica, il baricentro sia sempre più spostato verso l’interesse degli adulti.

Problema: errori tecnici

Un altro motivo è legato ad “errori tecnici” insiti nella legge stessa: forse sarebbe stata necessaria una maggiore attenzione nella sua redazione. Ad esempio, è assente un coordinamento tra questa e la precedente legge in materia di affidamento (legge n.80/2005); inoltre, nell’attuale testo in vigore mancano norme chiare ed esplicite circa la competenza funzionale dei giudici di merito con riguardo ai figli dei genitori non coniugati, piuttosto che la mancata previsione di un rappresentante dei figli minori in caso di grande conflittualità tra i genitori.

Problema tempistiche

Senza considerare uno dei più gravosi problemi del nostro sistema giudiziario, quello delle tempistiche eccessivamente lunghe e lente, che inevitabilmente tange anche questo contesto: situazioni di stallo che comportano aumenti del tasso di litigiosità tra gli adulti, con dannose ripercussioni sui figli condannati ad attese infinite, mentre questi ultimi, soprattutto, avrebbero bisogno di risposte rapide ed efficaci. Si tratta di bambini, e adolescenti, che sono alla ricerca di una stabilità, di una chiarezza e di un minimo di serenità nello svolgimento della quotidianità che consenta loro di ripristinare un sistema di vita normale.

L’emanazione della legge sull’affidamento condiviso richiama, inoltre, la grande importanza della specializzazione del giudice designato ad occuparsi di famiglia, dando sempre la priorità ai figli minori e alla loro tutela. Ma, ancora oggi, la situazione non è cambiata.
E’ pacifico il fatto che questa legge ha posto come regola la concreta distribuzione delle competenze tra i due genitori, relegando al confine la possibilità, sino a poco tempo fa ordinaria, dell’affido al genitore più idoneo.

Tutto questo avviene in un tempo nel quale la crisi coniugale, e più in generale del rapporto di coppia, è statisticamente più frequente rispetto al passato per varie motivazioni; è da qui che la domanda di “responsabilità genitoriale” si manifesta in un contesto (quello delle famiglie divise ed eventualmente ricomposte in una nuova unione con diverso partner) che non può più dirsi eccezionale, ma si inscrive nella normalità dell’esperienza.

Già nel lontano 1987 il legislatore aveva colto mutamenti che necessitavano una nuova regolamentazione in merito alla responsabilità genitoriale (vedi, ad esempio, la riformulazione dell’art. 6, comma 2, della legge sullo scioglimento del matrimonio, in cui al tribunale veniva richiesto, in primis, di dichiarare a quale dei genitori dovessero essere affidati i figli, precisando, però, che, ove lo si fosse ritenuto utile nell’interesse dei minori, poteva anche essere dispostol’affidamento congiunto o alternato. Del resto, lo stesso art. 155 c.c. già prevedeva che, nell’emanare i provvedimenti relativi alla prole, il giudice tenesse conto dell’ “accordo tra le parti”).

Di fatto, però, il precedente (e limitato) riconoscimento legislativo dell’affido congiunto è stato raccolto con una prudenza a volte eccessiva da parte dei giudici: questi ultimi, temendo che la residua conflittualità tra gli ex coniugi o compagni potesse ripercuotersi negativamente sull’esercizio condiviso delle responsabilità genitoriali, ritenevano preferibile affidare il figlio ad uno solo dei due genitori, cui veniva attribuito l’esercizio esclusivo della potestà (restando, beninteso, condivisa la sola titolarità della potestà e permanendo, comunque, in capo al genitore non affidatario il diritto-dovere di partecipare, seppur in via subordinata, all’educazione e alla crescita della prole).

Diciamo che, in linea teorica, era presente una preferenza per l’affido congiunto ma, nel concreto, si riscontravano non poche difficoltà nel raggiungerlo.

Con la nuova formula dell’affido condiviso, il legislatore ha voluto determinare un’imposizione forse troppo categorica, anche se derogabile, che continua a non trovare facile applicazione, se letta e concretizzata nella sua essenza: condivisibile dal punto di vista degli interessi rappresentati (anche se talvolta fraintesi) ma non altrettanto dal punto di vista dei metodi per affermarli.

Gli stessi interrogativi che i giudici si ponevano prima della legge n.54/2006 continuano a permanere, le problematiche relative alla conflittualità tra i coniugi (che in pochissimi casi è assente) sono ancora tangibili e il testo non chiarifica un modus operandi che permette una reale applicazione della formula nel pieno interesse dei minori coinvolti. Sono rarissimi i casi in cui gli adulti riescano a scindere la loro situazione (fallita) di coppia dal loro ruolo di genitore, e che non “usino” i figli come “arma di vendetta” verso il proprio ex. Ed è pressochè impossibile che le metodologie applicative legate alla precedente legge siano funzionali in questo nuovo contesto.

Forse, se vediamo l’esperienza concreta, in cui le decisioni dispongono che i figli minori suddividano il tempo “equamente” tra la mamma e il papà, seguendo acriticamente la disposizione secondo cui “[…] è giusto che i bambini trascorrano lo stesso tempo col padre e con la madre”, sarebbe più corretto parlare di affido “diviso”.

Ritengo che la vecchia legislazione, quella che prevedeva la possibilità dell’affido congiunto, sia presumibilmente più logica rispetto alla nuova formula, definita immediatamente applicabile in ogni procedimento, senza tenere conto della palese logica adulto-centrica che il testo cela sotto il superficiale interesse verso i bisogni dei minori. Ai tempi, l’introduzione dell’affido congiunto o alternato aveva un suo preciso fondamento “logico e psicologico”:dopo anni, infatti, i coniugi potrebbero raggiungere nuovi equilibri ed il conflitto risolversi in un apprezzabile ridimensionamento.

Nella fase iniziale di una separazione giudiziale, inevitabilmente carica di un’elevataconflittualità, la possibilità che i due coniugi possano comunicare serenamente in merito ai propri figli è una assurda utopia. Il coniuge che ha deciso di separarsi ha una grande necessità di pensare all’altro come colui che gli ha rovinato la vita, come il suo peggior nemico che ha frustrato ogni aspettativa relativa alla costruzione dell’armonia familiare. Ha, insomma, un grande bisogno di cancellare tutto ciò che di positivo è legato alla sua figura, pensandola invece come una persona “sbagliata”, il tutto finalizzato a rafforzare le proprie buone ragioni riguardo ad una scelta che sconvolge inevitabilmente gli assetti famigliari e che parla del fallimento di un progetto iniziale. Pensare al coniuge in termini soltanto distruttivi attenua i sensi di colpa e solleva, per certi versi, dalle proprie responsabilità.

Il coniuge che “subisce” la separazione guarda all’altro come un crudele persecutore, come colui che, senza motivo, gli infligge una pena profonda, in quanto lo priva della famiglia in cui ha creduto ed investito. Non è, quindi, assolutamente disposto a guardare con occhio critico alle personali responsabilità che hanno contribuito al fallimento del patto coniugale. La comunicazione, dunque, si interrompe inevitabilmente e qualunque gesto o parola giunge sempre con l’amaro sapore dell’aggressione.

In contesti del genere, pensare che i coniugi possano trovare un pacifico canale di comunicazione in merito ai propri figli è pressochè impossibile. Della stessa opinione risulta essere anche il legislatore (e questo è uno dei grandi controsensi di questa legge), che infatti ha previsto che il giudice, a fronte dell’incapacità dei genitori di trovare intese, possa “[…] anche per questioni di ordinaria amministrazione […]”, stabilire l’esercizio separato della potestà genitoriale.

Così, tra un’ambiguità e l’altra, la legge sull’affido condiviso nega, in realtà, la complessità delle dinamiche intrapsichiche e relazionali di tutti i soggetti coinvolti nella separazione. La semplifica, forse preso da un delirio di onnipotenza, poiché con una semplice formula ha creduto di poter sciogliere questioni molto aggrovigliate, tentando di negare l’evento separativo, attraverso l’illusione (alquanto utopistica) di non creare squilibri nelle relazioni genitori-figli. Personalmente, non è comprensibile questo tentativo di evitare gli squilibri, quando la situazione che arriva davanti al giudice è il risultato di un equilibrio già rotto, il cui assetto sia interno che esterno è difficile da riorganizzare.

È criticabile anche il presupposto di partenza della legge, secondo cui in regime di convivenza e di unione familiare, le responsabilità genitoriali siano sempre state condivise. Niente di più irreale, considerando anche il fatto che la maggior parte delle crisi scaturisce proprio da una sostanziale incapacità dei coniugi a costituirsi come famiglia e come “coppia genitoriale”.

Se il legislatore avesse tentato di uscire da una prospettiva meramente teorica, cercando di semplificare la complessità del tema, forse sarebbe stato in grado di apporre modifiche alla procedura relativa ai giudizi di separazione, oppure avrebbe istituito il tanto desideratoTribunale della Famiglia.

Il problema si può identificare nel fatto che il presupposto ovvio è che, nei casi di separazione, non parliamo di regolamentazione dei confini di proprietà (a meno che i bambini non vengano concepiti quali oggetti e, se vogliamo dirla tutta, già il termine potestà evoca qualcosa del genere), ma trattiamo vicende umane in cui il dolore, la rabbia, il senso di perdita e di sconfitta, la frustrazione e l’impotenza fanno da protagonisti.

Chi lavora in questo ambito dovrebbe sapere quanto questi sentimenti siano determinanti nel creare situazioni paradossali, in cui due coniugi che si sono scelti, amati, stimati, che hanno condiviso le loro vite per anni, ad un certo punto si trasformano in “parti processuali”. Fino al giorno prima si erano rivolti al coniuge chiamandolo per nome, coniuge che il giorno dopo diventa la “controparte”, “quello là”, “la signora”. Prima , rivolgendosi ai figli, il padre era “papà” e la madre “mamma”, il giorno dopo diventano “tuo padre” e “tua madre”.

Forse è necessario costruire un percorso volto ad aiutare i genitori ad assumersi, in modo responsabile, l’impegno a garantire ai propri figli il senso della loro appartenenza e identità, per aiutarli a creare le condizioni più consone affinchè i bambini abbiano la possibilità di fruire e godere di entrambi i modelli e codici, (materno e paterno), così da integrarli in modo armonico.

In ogni caso, nessun legislatore o giudice potrà evitare ai minori il dolore e la tristezza per ciò che accade.

Volendo pensare in termini positivi e propositivi, si potrebbero trovare delle soluzioni che siano effettivamente funzionali agli interessi dei bambini, come, ad esempio, fissare l’udienza presidenziale in tempi più brevi, e disporre consulenze tecniche (sempre in tempi funzionali) che permettano di avere un quadro della situazione completo, e dal punto di vista della lite giudiziaria, e da quello dell’organizzazione della vita con i propri figli.

Il tutto tenendo sempre e comunque ben presente che la soluzione della propria situazione non deriva dalla decisione giudiziaria, ma da se stessi.

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