Nei casi di separazione, sempre più frequente diventa il ricorso, da parte del Giudice, alla figura del CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio), uno psicologo che offre il suo servizio per stabilire, in maniera più approfondita, un parere circa i termini di affidamento dei figli coinvolti.
In questa sede vorrei avanzare qualche riflessione sulla qualità del rapporto che collega la figura del CTU sia alle parti che agli operatori della Giustizia, nell’ambito delle problematiche relative all’affido di minori.
Il CTU e le parti
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Negli utenti possiamo riscontrare un diffuso atteggiamento di fondo positivo (ad esclusione delle fasce sociali più deprivate) verso le conoscenze psicologiche, atteggiamento che comporta sia vantaggi che aspetti negativi.
È positiva la tendenza ad un approccio più problematico, meno dogmatico alle varie situazioni da parte delle coppie che giungono alla consulenza, contribuendo così ad un “ammorbidimento” della relazione tra il consulente e i soggetti: si crea, così, un terreno sicuramente più favorevole ad un dialogo meno “intralciato” da difese.
Tuttavia, questa maggiore sensibilità (tendenzialmente associata ad una conoscenza generica, superficiale e grossolanamente esperenziale dei meccanismi psichici) può facilmente portare ad una strumentalizzazione della psicologia, che diventa, così, uno strumento per prendere (o perdere) tempo a fini prettamente procedurali. In questo senso, capitano casi in cui l’attenzione viene “cavillata” su aspetti secondari delle situazioni familiari in auge, mettendo in ombra quelli che sono i veri problemi; problemi che una delle parti (o, spesso, entrambe) sembra intenzionata a non affrontare. In questo groviglio di dinamiche, il minore può finire a ricoprire un ruolo marginale, considerato un semplice “testimone” oculare ed emotivo della crisi di coppia ( e personale) dei genitori: ignorato nelle sue reali esigenze, anche se si parla di lui, sfruttato alternativamente dalle controparti come oggetto di sottili coercizioni psicologiche volte ad indirizzarlo verso una posizione piuttosto che l’altra, indotto a fornire dichiarazioni e poi subito dopo a ritrattarle, immerso in una commistione di verità e bugie.
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Durante l’iter degli accertamenti peritali, il bambino sperimenta una realtà parallela, “come se”, in cui la dimensione della narrazione assume connotati di realtà molto di più rispetto ai fatti e alle azioni. E in tutto ciò, vengono ignorati i suoi veri bisogni, in primis quello di avere la certezza che i suoi genitori continueranno ad amarlo anche non stando più insieme. L’induzione strumentale di vissuti di vittimizzazione, spesso sproporzionati alla realtà e spesso costruiti a tavolino, non ottiene altro che la distruzione, in modo alternato, dell’immagine e del padre e della madre, con gravi contraccolpi psicologici a danno dei processi di identificazione che in età minore sono in fase di costruzione.
Questa “pseudocultura psicologica”, inoltre, accentua negli adulti in causa difese di tipo intellettualistico, creando importanti interferenze nell’elaborazione e nell’espressione dei sentimenti e delle emozioni, con effetti grossolani di induzione di problematica a spese del perito, al quale spesso vengono offerti non fatti ma interpretazioni mascherate da oggettività.
Tutto questo apre inevitabilmente numerosi interrogativi. In primo luogo dubbi circa l’aspetto puramente metodologico e deontologico (legati al fatto che spesso assistiamo ad una incontrollata divulgazione di nozioni e tecniche che vengono messe a disposizione, in tal modo, anche di persone inesperte ed incapaci di utilizzarle senza confusioni e distorsioni. Per citare una possibilità piuttosto frequente, troppe volte si vedono bambini che sembrano indottrinati in merito al modo di eseguire i disegni di famiglia); in secondo luogo esiste un reale rischio di interferenza da parte degli utenti circa il metodo con cui i consulenti operano, volta a deviare, anche con strumenti giuridici (es. ricorsi, tentativi di ricusazione e invalidamento della perizia, etc.) il percorso di un lavoro che pretendono di valutare in base a risultati del tutto provvisori pur ignorandone tempi, procedure, strategie a lungo termine etc. Poi, spesso le aspettative delle singole parti nei confronti del perito sono confuse, attribuiscono a quest’ultimo poteri che in realtà appartengono al Giudice o, al contratrio, gli riconoscono un ruolo marginale. Sono diffuse anche le situazioni in cui si creano aspettative di tipo “simil-terapeutico”, quasi come se il perito potesse risolvere i propri conflitti personali al di là del suo compito formale affidatogli dal Tribunale. Altro aspetto di non poco rilievo: è vero che il risultato finale del giudice è quello di fare una sintesi di tutti i dati a sue mani, tra cui la consulenza tecnica, ma è altrettanto vero (e, forse, più importante) che il provvedimento può dirsi efficace quando si radica nel consenso razionale ed emotivo delle parti in causa, ovvero nell’accettazione di quanto il Tribunale dispone. In questi termini, la consulenza tecnica acquista un ruolo privilegiato, perché può rappresentare la sede in cui si prepara il terreno ad un atteggiamento di accettazione nei confronti delle disposizioni finali del Tribunale. Infine, un accenno è da fare in merito alla relazione tra il consulente ed i “figli della separazione”: trattandosi di vicende piuttosto complesse, nella quasi totalità dei casi i minori sono confusi, scissi nei loro investimenti affettivi, capaci di elaborare efficaci astuzie per accontentare tutti , ma incapaci di darsi un ordine interno in merito ad un conflitto che, il più delle volte, appare loro indecifrabile. Il consulente, spesso, è il primo psicologo che il minore incontra nel suo percorso (e, spesso, anche l’unico): senza travalicare i confini della perizia, si può fare qualcosa per cercare di offrirgli un appiglio e soprattutto attenuare, per quanto possibile, i sensi di colpa che inevitabilmente egli si porta dentro. Risultato, questo, che a volte si ottiene con mezzi anche “minimali”: in molte situazioni è sufficiente definire un “contratto” esplicito tra il CTU ed il bambino, poche parole per stabilire un sodalizio temporaneo finalizzato al raggiungimento della maggiore serenità possibile, peraltro senza fare gratuite promesse onnipotenti che creerebbero illusioni ed, inoltre, senza chiedere al bambino di “lavorare” per costruire un qualcosa che è di sola pertinenza degli adulti. Qualche volta il perito, con questo suo piccolo discorso, è veramente il primo che si preoccupa di spiegargli cosa sta succedendo, prima voce chiara nella confusione delle liti e delle ritorsioni familiari: la consulenza rappresenta, quindi, un’occasione preziosa da non sprecare, senza ovviamente travalicare i propri limiti “contrattuali”.
Il CTU e i committenti
Passiamo ora alla posizione dei committenti, ovvero i Tribunale: anche in questo caso è riscontrabile un aumento della “sensibilità psicologica”, una maggiore consapevolezza dei limiti insiti in un’ottica prettamente giuridica ed una maggiore attenzione alle persone, alle singole situazioni.
Ma, per contro, ritroviamo una maggiore insicurezza ed una diffusa tendenza (inconscia) ad ampliare il campo di azione del consulente, restringendo il proprio.
Tutto questo, a mio parere, rischia di far perdere di vista la caratteristica portante della CTU, ovvero il fatto che si tratta di un semplice parere tecnico. E’ presente la tendenza a sopravvalutare, forse, l’aspetto tecnico, nella lodevole intenzione di evitare improvvisazioni in un contesto così delicato, ma non si tiene conto del fatto che la consulenza rappresenta, sempre e comunque, un parere: non è un referto ma una semplice “prospettiva”, peraltro non vincolante per il Tribunale. Il Giudice non chiede al consulente una descrizione e (se è il caso) una diagnosi: chiede una vera e propria valutazione, il che introduce ad un passaggio successivo, la discussione del dato puramente psicologico e clinico (discussione che deve essere rigorosamente condotta all’interno dei binari delimitati dal quesito). La valutazione rappresenta l’elemento soggettivo del parere: il consulente, utilizzando le proprie conoscenze tecniche ma anche la sua esperienza personale, trae delle conclusioni che, di fatto, non sono elementi oggettivi. Per meglio chiarire questo aspetto, faccio un esempio: la capacità di esercitare il ruolo genitoriale viene dedotta da una serie di osservazioni empiriche, ma il prodotto non è un dato esperenziale, bensì una valutazione, un parere.
Ritengo importante evidenziare questi aspetti, in modo tale da riconoscere al CTU il suo reale ruolo, nelle sue giuste dimensioni, e sottolineando il fatto che mai un CTU dovrebbe trovarsi a gestire (anche in modo indiretto) ambiti decisionali spettanti esclusivamente al Tribunale.
Il ruolo del consulente risulta, quindi, tanto più efficace quanto più si mantiene distinto rispetto a quello del Giudice e dei Servizi preposti alla gestione dei singoli casi. Risulta frustrante, ma soprattutto dannoso per l’utenza, il fatto che casi (e relativi pareri) estremamente complessi naufraghino nel nulla perché il Servizio Territoriale indicato come il più idoneo a gestire la situazione, di fatti si riveli latitante o insufficiente. Ed è anche accaduto che, in mancanza di organizzazioni e strutture idonee, al consulente sia stato dato ò’incarico di “inventare” ed impersonare, da solo, un “Servizio” attorno a casi di eccezionale complessità, vicariando una serie di operatori sociali e, talvola, gli stessi giudici.
Se è vero, come dicevo sopra, che spesso il CTU è l’unico psicologo che il bambino incontra, è tassativo che questi gli offra una risposta di stabilità e linearità, proprio perché sono queste le realtà in cui ne ha più bisogno: e ciò non solo per correttezza formale, ma perché la consulenza si deve considerare fallita se il minore ne esce deluso, sconfitto e ancora più confuso.
In conclusione
Per concludere, vorrei accennare ad un ultimo problema, tutt’altro che secondario: come fare a meno del perito? La Giustizia Minorile potrebbe anche, in diversi casi, evitare di giungere all’accertamento peritale che costituisce per i minori, comunque, uno stress, piuttosto che considerare la consulenza un passaggio quasi doveroso. Sono molti i casi in cui, nonostante l’evidente chiarezza della situazione, si ricorra ad una inutile consulenza tecnica, inutile nel senso che il Tribunale avrebbe potuto risolvere il tutto con una risposta efficace e pronta in tempi relativamente brevi. I modi, quindi, ci sarebbero, ma (purtroppo o per fortuna) il passaggio alla richiesta di una consulenza tecnica è diventata, ormai, prassi quotidiana quando sono coinvolti minori.