La separazione rappresenta una fase molto delicata del ciclo di vita di un sistema familiare, e nella quasi totalità dei casi viene connotata di significati negativi e traumatici, soprattutto pensando ai figli.
Uno dei problemi principali che i genitori avvertono quando decidono di separarsi è proprio il “trauma” che inevitabilmente, secondo loro, subiranno i figli. Ed è sulla base di questa percezione che, spesso, la coppia genitoriale tende ad assumere un atteggiamento di estrema protezione, procrastinando il momento della comunicazione, studiando la situazione e le parole più consone per affrontare la questione con i loro bambini. E mantenendo, in maniera più o meno consapevole, il “fantasma” del trauma al loro fianco.
Ma è veramente così? Separarsi significa necessariamente generare un trauma nei propri figli?
Cerchiamo di capirlo insieme.
Un primo punto che spesso non viene tenuto in considerazione riguarda il fatto che la separazione è una scelta relativa alla coppia coniugale, che ben differisce in termini di significati dalla coppia genitoriale. Assumere questa diversità di osservazione permette di cogliere alcuni aspetti tipici del sistema familiare che sta attraversando questa fase.
Una coppia che arriva alla decisione di separarsi è una coppia che vive, inevitabilmente, il senso di fallimento e di frustrazione derivante dal non essere stata in grado, per un qualche motivo, di portare avanti il proprio progetto di vita. Tali sentimenti sono totalmente leciti e normali, sia in chi subisce la scelta della separazione, sia in chi la agisce. Il senso di colpa verso i figli diventa, di conseguenza, decisamente elevato e attiva quella serie di comportamenti iperprotettivi che, paradossalmente, possono assumere un significato “dannoso”.
Il vissuto negativo derivante dal fallimento coniugale è la variabile che porta i genitori a pensare che i figli vivranno le stesse sensazioni.
Ovvio, non si rinnega l’intensità e la tonalità affettiva di questa fase, sicuramente significativa per il bambino e da non sottovalutare. Ma la separazione non è necessariamente la causa pregnante di una eventuale sofferenza psicologica nei figli.
In realtà, non sempre per i figli la separazione come evento rappresenta qualcosa di “dannoso” dal punto di vista psicologico ed evolutivo; è il loro ingresso nel “gioco coniugale” a rappresentare una variabile di rischio. Durante la separazione, infatti, il bambino non solo osserva, ma viene spesso coinvolto come attore in quanto conteso, costretto a schierarsi, o a mediare il conflitto tra i genitori. Il ruolo di partner e quello di genitore vengono confusi, mescolati, e i figli diventano il canale principale per trasmettere all’altro i propri vissuti.
La separazione non rappresenta un evento traumatico quando i genitori riescono a dare continuità al legame parentale, il che si traduce nella capacità di riuscire a mantenere una collaborazione affettiva ed educativa senza “sporcarla” dei vissuti derivanti dal fallimento coniugale. In questo modo, rimane intatta quell’immagine rassicurante di genitore che è fondamentale per la crescita dei figli e per affrontare l’inevitabile cambiamento.
Numerosissimi studi nazionali ed internazionali hanno cercato di trattare gli aspetti traumatici dei vissuti psicologici dei “figli di separati”, rilevando un’origine multifattoriale degli effetti della separazione. Esistono due macro categorie di variabili:
1) Familiari : la specifica storia della famiglia, il cambiamento della struttura familiare, il livello più o meno manifesto di conflittualità tra i coniugi, la qualità dei rapporti genitore-figlio, la rete sociale e familiare di riferimento, le condizioni psicofisiche dei genitori, il contesto socio-culturale di appartenenza;
2) Psicologiche individuali : l’età, la struttura di personalità del bambino, la resilienza, il sesso, l’ordine di genitura.
Questi dati già mostrano come sia impossibile definire aprioristicamente la separazione come evento traumatico, senza tener conto, cioè, delle specifiche variabili del caso.
Inoltre, tali studi hanno evidenziato come la variabile di rischio maggiore per il benessere psicofisico dei figli sia rappresentata dal livello di conflittualità dei genitori.
Quando la situazione è caratterizzata da alta conflittualità, il bambino viene spesso coinvolto nel conflitto, diventando il “proiettile” che permette di soddisfare il sentimento di rivalsa di un genitore verso l’altro.
Il bimbo conteso subisce pressioni continue e tentativi di alleanza che mettono a repentaglio la relazione con entrambi, e viene pervaso da un mix di sentimenti negativi che vanno dal senso di abbandono, alla rabbia, alla frustrazione, all’impotenza. L’adulto perde il suo significato di “base sicura” agli occhi del bambino e questo gli impedisce di essere fonte di conforto e protezione.
In qualsiasi fase di cambiamento della vita (e a maggior ragione quando si vive una separazione) il bambino ha bisogno di stabilità e di sperimentare un senso di continuità delle sue relazioni affettive, di continuare ad esperire i genitori come un punto di riferimento emotivo.
Da ciò, risulta evidente come l’impatto della separazione sui figli sia direttamente correlato alla capacità di elaborazione dei genitori: non è, quindi, la separazione in sé ad essere probabile fonte di sofferenza psicologica, quanto più le strategie che gli adulti attivano nel gestirla.
Il disagio psicologico, che può essere concepito quale normale reazione all’evento separazione, si diversifica a seconda dell’età:
1) 0-3 anni: è la fascia di età più “protetta” dalle conseguenze immediate dei genitori, a patto che venga garantita una stabilità e sicurezza relazionale almeno con uno dei due genitori. Le possibili reazioni sono le regressioni comportamentali: disturbi del comportamento, perdita del controllo degli sfinteri precedentemente acquisiti, suzione del pollice e/o dei capelli, condotte auto-consolatorie. La separazione suscita in loro diverse emozioni tra le quali la collera, la frustrazione e l’abbandono;
2) 3-6 anni: i bambini appaiono molto confusi e insicuri per quanto riguarda i cambiamenti nella loro vita familiare, alcuni si aggrappano alla speranza che i genitori possano tornare insieme e si creano delle fantasie per trovare conforto in esse. Altri bambini avvertono rabbia/aggressività connessa al senso di perdita e di rifiuto che possono reprimere o manifestare nei confronti degli altri, mordendo i compagni di scuola, distruggendo oggetti, andando alla ricerca di animaletti da “uccidere”. I bambini possono esprimere la propria ansia e insicurezza anche attraverso comportamenti regressivi sul piano delle autonomie personali e/o mostrare comportamenti eccessivamente dipendenti (pianto facile ed improvviso, stati d’irritabilità, alterazione del ciclo sonno – veglia e dell’alimentazione);
3) 6-10 anni: i bambini in questa fase acquistano maggiore coscienza delle cause e delle conseguenze della separazione ed è più facile che si schierino dalla parte di uno dei genitori in conflitto. Possono manifestare diverse reazioni: profondo senso di perdita, rifiuto, vulnerabilità e solitudine, sentimenti di vergogna, risentimento per il comportamento dei genitori, forte rabbia e scatti d’ira, dolore e tristezza intensa, sintomi somatici (mal di testa, dolori allo stomaco, stress), frequenti difficoltà di apprendimento, il rifiuto di andare a scuola, silenzio persistente, comportamento trasgressivo, blocco delle reazioni con l’esterno;
4) 11-17 anni: i figli più grandi possono essere caricati di una responsabilità crescente per i fratelli più piccoli e delle pretese di un genitore emotivamente dipendente. Frequentemente i genitori si aspettano che i figli più grandi prendano le loro decisioni riguardo alle visite o alla scelta di vivere con uno dei due genitori. I ragazzi sperimentano una situazione di conflitto fra il desiderio di vedere un genitore assente e quello di portare avanti attività con i coetanei. Alcuni manifestano cadute improvvise delle performance scolastiche, relazioni instabili con i coetanei; altri, invece, rafforzano un modello comportamentale con l’incremento delle attività sociali e didattiche all’interno della scuola. Spesso gli adolescenti provano anche paura di creare legami a lungo termine e di fidarsi delle persone, chiusura in loro stessi, fino ad arrivare a manifestare alcune condotte autolesive (suicidi dimostrativi, assunzione di droghe) o devianti.
L’assistere alle liti familiari, urla e pianti, provoca sentimenti contrastanti: paura per sé, per i genitori, eccitazione, angoscia, paura di perdere le proprie figure di attaccamento. Per far fronte a questi sentimenti penosi, il bambino riattiva modalità di pensiero “primitive” che avevano la conseguenza di calmare l’angoscia, che gli consentono di esercitare un controllo magico e onnipotente sull’ambiente. Per questo motivo, capita spesso che il bambino giunga ad attribuire a sé, attraverso qualche disubbidienza o sentimento rabbioso e distruttivo, la decisione dei genitori di separarsi. A volte però l’ambiente familiare, invece di sostenere il bambino in queste sue elaborazioni, permettendogli di pensare che la separazione è una scelta degli adulti, gli conferma più o meno esplicitamente la sua responsabilità in questa decisione.
Nella mia esperienza di Consulenza Peritale ho potuto rilevare come la sofferenza di un bambino tende ad aumentare quando la conflittualità tra i genitori è particolarmente elevata e quando uno dei due smette di esercitare le sue funzioni educative. La sofferenza, inoltre, rischia di aggravarsi quando il bambino è usato per ferire l’altro genitore, quando i conflitti sono concentrati prettamente sulla sua educazione, e quando la conflittualità è caratterizzata anche da aggressività fisica.
Un bambino che assiste alle scenate di rabbia, alle manifestazioni di violenza, fisica o verbale, tra i suoi genitori, o tra genitori e figli, viene sempre danneggiato. A volte alcune coppie in aperto e continuo conflitto non si separano “per il bene del bambino”, esponendolo così ad il grave danno, ossia vivere in un clima di tensione e di violenza psicologica, dove i significati dell’affetto sono mischiati a quelli dell’ira e del disprezzo. I danni sono gravi anche se lui non è oggetto di aggressioni dirette poiché è costretto ad assistere passivamente alla violenza, come se fosse seduto su di una polveriera che può esplodere improvvisamente.
Alla luce dell’esperienza clinica e peritale maturata, ritengo sia fondamentale agire preventivamente, cercando di sensibilizzare i genitori a sforzarsi di scindere i loro due ruoli e di empatizzare veramente con i loro figli, persone che hanno il diritto di essere amati e riconosciuti nei loro bisogno emotivo-affettivi.